Macheronte e quell’ultimo ballo di Salomè

Salire sulla sommità di Macheronte è un’esperienza rivelativa e liberatoria. Vi attendono Erode, Salomè e – forse – la testa del Battista.

L’ascesa a Macheronte è un’esperienza biblica. Non solo per i suoi rimandi storico religiosi, ma anche e soprattutto per le emozioni dal sapore eterno e incorruttibile che si provano lungo il cammino. Un cammino arido, crudo, battuto dal vento e flagellato da un sole che non conosce perdono. Tutto intorno, il silenzio anarchico dei monti desertici e dei pendii che diroccano in valli senza nome. Ma una volta in cima, si è completamente rinati. Si lasciano dietro pensieri, incertezze, ambiguità, contrasti irresoluti, malesseri che fino a quel momento si credevano inguaribili. Non a caso, il nome Macheronte deriva dal greco μάχαιρα, che significa “spada”. Perché è un luogo che taglia: sguardo, fiato, emozioni. E quando il cielo è promettente, si riesce a vedere anche il mare, specchio di luce immobile a circa 25 km di distanza, e persino il luccicare ammiccante della cupola d’oro di Gerusalemme. Ma che cos’è veramente Macheronte?

Un tempo, Macheronte era un castello sontuoso, ingioiellato di stoffe, tappeti, ricchi tendaggi, vini e belle donne: il castello di Erode, re della Giudea ai tempi di Gesù. Giuseppe Flavio lo identifica come il luogo di prigionia e morte di Giovanni Battista. Ora, però, non ne restano che fantasmi e l’illusione di scorgere ciò che i secoli hanno progressivamente depredato: rovine, pietre sporgenti dal terreno come ossa in un vecchio cimitero e mura che hanno ceduto sotto il peso inesorabile della storia. Eppure è una sommità magica, in grado di donare pace sia al viandante stanco che al viaggiatore curioso. Sarà perché non è un luogo battuto dal turismo. O perché la solitudine, cieca e spietata, ne accentua quel timore reverenziale che solo al cospetto di tali solenni antichità si riesce a provare.

Si cammina lungo i perimetri rasi al suolo delle stanze, ambienti troppo grandi e fastosi da immaginare; attorno a colonne sopravvissute alla furia delle battaglie; o sul ciglio di quelle che dovevano essere – forse – le prigioni, ambienti sotterranei che ancora custodiscono le pene di coloro che vi furono confinati. Viene in mente il celebre dipinto di Caravaggio, La decollazione del Battista, un 5 metri per 3 gelosamente conservato nell’Oratorio di San Giovanni Battista dei Cavalieri, nella Concattedrale di San Giovanni, a La Valletta. L’oscurità che fende l’attesa, il suono greve dei passi che annunciano la triste sentenza, il sangue che sgorga a fiotti per la gioia della bella e spietata Erodiade. La storia la conosciamo già.

“Danza per me, Salomè…”

– Danza per me, Salomè, ti supplico. E ti donerò tutto ciò che mi chiederai.
– Tutto quello che ti chiederò, Re Erode?
– Tutto. Fosse anche la metà del mio Regno.
– Allora portami la testa del Battista.

Uomo timorato di Dio, Giovanni Battista condannò la condotta dei due sfacciati amanti: Erodiade, che abbandonò il marito Filippo I, e il cognato Erode Antipa, presso il quale la donna andò a vivere. Le invettive del profeta provocarono un profondo risentimento da parte della regina, tanto che il re lo fece immediatamente imprigionare. Fu in occasione di un banchetto organizzato per il compleanno di Erode, che le danze sensuali di Salomè, figlia di Erodiade, sollevarono desideri alquanto peccaminosi nella mente del lussurioso patrigno il quale, mosso da maliziosa generosità, promise alla giovane di soddisfare qualsivoglia suo desiderio se solo avesse danzato per lui tutta la notte. Salomè accettò. E una volta cessate le danze, sotto torbido suggerimento della madre, tornò da Erode chiedendogli in cambio la testa del Battista. Il piatto d’argento fu così servito.

“Ad Oriente del Mar Morto, sopra un picco a forma di cono, si ergeva la cittadella di Machareus circondata da quattro profonde vallate, due verso il fianco, una di fronte e l’altra alle spalle. […] Vi era all’interno un palazzo ornato da portici e coperto da una terrazza che chiudeva una balaustra in legno di sicomoro ove erano disposti degli alberi per stendere un velario. […] I convitati empivano la sala del banchetto a tre navate come una basilica, separata da colonne di legno con capitelli di bronzo coperti da sculture. Due gallerie aperte vi erano poggiate e una terza a filigrana di oro si elevava in fondo, dirimpetto a un arco enorme che si apriva al lato opposto. Dei candelabri ardenti sulle tavole, allineati in tutta la lunghezza della sala, facevano grandi fuochi tra le coppe di terra dipinte e i piatti di bronzo, i cubi di neve e i grappoli di uva. Ma i chiarori rossi si perdevano progressivamente per l’altezza del soffitto e, di notte, alcuni punti luminosi come stelle brillavano attraverso i rami...”.

(Gustave Flaubert, Erodiade)

Geolocalizzazione di Macheronte

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