A Sarajevo, dove il tempo si è reinventato

Con la sua istrionica capacità di sopravvivenza la città bosniaca amalgama passato e futuro. La attraversiamo con lentezza

Se esiste una città dove il tempo si è reinventato, stratificandosi ad arte strada per strada, edificio dopo edificio, unendo stili tra loro inconciliabili ed epoche che apparentemente nulla hanno in comune l’una con l’altra, questa è Sarajevo. Con la sua istrionica dimostrazione di sopravvivenza a ogni costo, Sarajevo è un luogo che amalgama, con elegante maestria, non solo l’antico e il moderno, ma anche il ricostruito e il decadente, il futuristico e l’esotico. E tre religioni diverse. La «Gerusalemme d’Europa», veniva chiamata.

Sarajevo richiede lentezza. E il modo migliore per giungervi è percorrere un rettilineo di quasi dieci chilometri, dal sobborgo di Ilidža alla palpitante Baščaršija, sul tram numero 3, un convoglio redivivo che, dagli anni 70 a oggi, non ha mai saltato una corsa, eccetto durante il conflitto in Bosnia. Le sue carrozze furono costruite in Cecoslovacchia, col ferreo rigore filo-sovietico: praticamente indistruttibili. E anche se le lamiere hanno un po’ accusato gli acciacchi dei decenni, a tratti ammaccate come se avessero cercato di raddrizzarle a colpi di martello, con i colori utilizzati per ridipingerle, ogni loro irregolarità è stata del tutto perdonata: giallo canarino, rosso Ferrari, blu elettrico, verde acido. Quando il 1° gennaio 1885, l’Impero austro-ungarico decise di testare, qui a Sarajevo, la nuova linea tranviaria, non avrebbe mai immaginato che tale banco di prova sarebbe oggi diventato anche un affascinante pretesto turistico per assaporare, dietro i vetri un po’ rigati dei finestrini, tutte le sfaccettature discontinue del variegato tessuto urbano.

Il tram si mette in moto, gagliardo e scricchiolante. A cedergli il passo, il leggendario ponte romano che, con i suoi sette archi, si riflette fiabesco sul fiume Bosna. Romano di nome ma non di fatto. Nessun imperatore ne ordinò la realizzazione, bensì il genero del Solimano, Rüstem Pascià, che lo volle costruito esclusivamente «riciclando» le lapidi romane che si trovavano nelle immediate vicinanze.

Il panorama, nel frattempo, è cambiato. All’orizzonte già si delineano i frastagliati profili dei quartieri di Dobrinja e Nedžarići, con i loro ciclopici condomini dalle facciate tappezzate di murales che, a colpi di street-art, hanno convertito fori di granate e voragini da mortaio in naturali elementi di arredo urbano.

Abbasso lievemente il finestrino. C’è nell’aria una voce, un richiamo che si diffonde in ogni dove: è il canto del muezzin, che vibra dalla moschea del Re Fahd, tra le più grandi d’Europa. Nuova di zecca, la sua costruzione è stata interamente finanziata dall’Arabia Saudita. Sembra fatta di sabbia: il colore caldo delle tende dei beduini, le mille arcate come dune del deserto e i minareti, più sottili dell’ago di una bussola.

Il tram singhiozza, si scuote, colpa dei binari non ancora del tutto rinnovati. Una precarietà che caratterizza anche l’edificio abbandonato alla mia destra, ex capolavoro brutalista lodato per la sua rude struttura in cemento a vista e oggi ridotto a uno scheletro ormai prossimo al collasso. Un tempo era la più capiente casa di riposo della città, diventata poi piedistallo per cecchini, infine «tela» per aspiranti graffitari. I cittadini che vi passano davanti scrollano il capo, rassegnati al cospetto dell’irrecuperabile: l’orologio che ancora troneggia in cima al cornicione non ha più ritrovato le sue lancette, cadute alla prima bomba.

Fresco di restauro, invece, è l’Holiday Inn, bivacco di giornalisti in tempo d’assedio. Questo cubico albergo color tuorlo d’uovo, che tanto ricorda una costruzione Lego, fu un controverso esperimento estetico del periodo socialista jugoslavo post Tito. Doveva infondere ottimismo ai cittadini, ma destò soltanto disapprovazione. Con le sue 360 finestre, sembra brillare di luce propria, ma in realtà sono solo i riflessi abbaglianti delle vicine torri gemelle «Momo e Uzeir», ammiccanti grattacieli la cui superficie a specchio si diverte a moltiplicare spazi, spostare orizzonti, creare illusioni. Il loro nome è un tributo all’omonimo memorabile duo comico jugoslavo (serbo il primo, bosniaco il secondo) che, a metà del secolo scorso, faceva strage di risate su Radio Sarajevo. Il dibattito su quale delle due torri sia Momo e quale rappresenti Uzeir è ancora aperto.

Il tram rallenta. Sta entrando nel vivo della città, che ora si apre con un susseguirsi di nove ponti sul fiume Miljaca, quasi tutti pedonali. Tra questi, il Ponte Latino dove il serbo Gavrilo Princip attese il passaggio dell’auto con a bordo l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria per compiere il famigerato attentato. Era il 1914. C’è una targa sul luogo, a memoria dell’evento, l’ultima di una lunga e contraddittoria sequela. La prima venne posta dagli austriaci, con parole avvelenate nei confronti dei serbi. La seconda, dal Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, per i quali Princip era considerato, invece, un eroe nazionale. Poi arrivò l’invasione nazista e il giovane tornò ad essere un assassino: la targa finì sulla scrivania di Hitler come dono per il suo 52esimo compleanno. Fu Tito a riabilitare Princip nel ruolo di liberatore, con una targa dal tono glorioso – la terza. Durò poco. Quando la Bosnia divenne indipendente, Gavrilo, in quanto serbo, venne obliato. Fino ad oggi, con la targa numero quattro.

Il tram è pieno, ha raccolto tutte le persone in attesa alle fermate. Questo viaggio è un’odissea. O un film, uno dei tanti proiettati a casa Despić, ottocentesca abitazione ottomana racchiusa tra sontuosi palazzi in stile impero, dove il mercante Mića Despić aveva fondato il primo home theater della Bosnia, conosciuto come il «Teatro nella casa dei fratelli Despić». L’attore principale era lo stesso Mića.

Sono quasi al mio capolinea. Un miracolo. Ma non l’unico. Ne accadono molti, al Mausoleo dei sette fratelli, con le sue sette finestre chiuse da grate verdi davanti a ognuna delle quali i fedeli recitano la stessa preghiera, inserendovi poi una moneta del medesimo importo. Si dice che le prime parole udite per la strada andando via siano la risposta alle proprie preghiere.

Fermata Municipio. Fine della mia corsa. Qui sopravvive il vecchio cuore di Sarajevo. E uno dei suoi battiti è l’ex Biblioteca Nazionale, incendiata nell’agosto del 1992 e ora sede del Municipio e di diverse mostre d’arte. Ricostruita fino all’ultimo invisibile dettaglio, con il suo abito in stile neo-moresco, è un’arabeggiante sfilata di sontuose arcate, alte logge, scaloni imperiali e rigogliose geometrie, a metà strada tra l’Alhambra di Granada e la moschea Mohammed Alì del Cairo. Per i sognatori, la copia perfetta del palazzo del re Shahriyār, in Le Mille e una Notte.

Geolocalizzazione del capolinea del tram numero 3

Leave a comment

ricevi le news

Resta aggiornato su nuove destinazioni, consigli, approfondimenti, curiosità dal mondo.

Professione Viaggiatore 2024. All Rights Reserved.