Palestina mon amour, dolore e bellezza

La Palestina esiste ed è bella, tenace, sorridente e sincera, soprattutto ospitale, con le sue radici più profonde del tempo e storie quotidiane che chiedono solo di essere condivise

Se si desidera visitare un luogo, bisogna prima di tutto individuarlo sulla mappa, circoscrivere la sua estensione, comprenderne la struttura. Niente di più difficile, se quel luogo è la Palestina. O, meglio, la Cisgiordania. Proviamo a tradurla in numeri.

Questo piccolo territorio rosicchiato dentro e fuori è delimitato, lungo i confini con Israele, da un muro di 730 chilometri, per lo più di cemento armato, alto dagli 8 ai 9 metri, sormontato da torrette di guardia chiaramente presidiate e coronato da una fitta rete di filo spinato. Viene chiamato “barriera di separazione israeliana” o “muro della segregazione”, dipende dal lato in cui ci si trova.

La Cisgiordania conta, al suo interno, 705 punti di chiusura israeliani, tra checkpoint totali o parziali, mucchi di terra, cancelli sorvegliati, blocchi di cemento, trincee e barriere realizzate con materiali più disparati. Ed è Inoltre suddivisa in tre settori: l’area A, palestinese, il cui accesso è, per la legge di Israele, interdetta agli israeliani; l’area B, mista palestinese e israeliana; e l’area C, dove vivono i coloni israeliani, vietata da Israele ai palestinesi. Vi sono poi ancora zone militari (israeliane) e zone cuscinetto a ridosso della Giordania, dove la certezza di finire sotto tiro è tanto elevato quanto quello di saltare in aria su una mina inesplosa.

Che il viaggio abbia inizio.

Ramallah

Capitale “de facto” della Palestina, Ramallah è moderna, caotica e chiassosa, ma a cercare il suo centro storico si corre il rischio di diventare ciechi. In buona parte raso al suolo dall’indifferenza e dalla corruzione della passate amministrazioni locali, oggi conta a mala pena un pugno di vecchie case in pietra, quasi tutte ornate da ricchi bassorilievi. Se hanno resistito all’incedere dei bulldozer è solo grazie ad alcuni cittadini orgogliosi e testardi che si sono adoperati per recuperarle, spesso trasformandole in musei della storia e della tradizione o semplicemente vivendoci.

Come l’abitazione di Yasser, che mi ha invitato a visitare, mostrandomi, con un certo vanto, tutti gli oggetti recuperati per arredarne l’interno: vetri colorati prodotti a Hebron, stoffe di Damasco, tappeti persiani, tavoli in cedro del vicino Libano e morbidi divani ottomani.

Betlemme

Di notte questa città, con le sue luci basse e malinconiche che vacillano tra le alture, sembra quasi un presepe. “Mi raccomando: sii prudente ad usare l’acqua, ne abbiamo poca”. Così ha esordito la ragazza che mi ha gentilmente ospitato nella sua casa. La scarsità è dovuta alla carenza di pozzi, strappati via alla popolazione dopo la costruzione del muro.

“Il muro”. L’ho costeggiato a piedi per un paio di chilometri e tanto mi è bastato per avvertire tutto il suo peso alla bocca dello stomaco. È come piombo nei polmoni: toglie il fiato. A sgravarlo di buona parte del suo peso, è l’arte, baluardo della resa dei conti che, con una sventagliata cromatica di murales, graffiti e stencil, sdrammatizza su una situazione da “non ci resta che piangere”: angeli in volo che tirano le estremità dei blocchi per aprire un varco e colombe della pace con giubbotti antiproiettili; Gesù che “sculaccia” un militare israeliano e Obama che sentenzia “I can’t!”; l’iconica invettiva “Make hummus, not war” e il celebre “lanciatore di fiori” firmato Bansky. E poi 73 manifesti, incollati uno di fianco all’altro come un mantra, a raccontare i drammi personali di chi ha provato (invano) a non arrendersi.

Hebron

Quando sono giunta in questa città, ho creduto fosse uno scherzo, uno di quei luoghi creati apposta per confondere, un labirinto dove non rimane altro da fare che perdersi. Pur essendo collocata in Cisgiordania, Hebron è divisa tra le due comunità sia “in orizzontale” – attraverso invalicabili checkpoint presidiati da militari israeliani, matasse di filo spinato, sacchi di sabbia accatastati o cancelli chiusi con tripli lucchetti – che “in verticale”. Una follia.

Nell’antico centro storico dove sorge il bazar, infatti, i negozi dei palestinesi si trovano al pianterreno, mentre le abitazioni degli israeliani sono al primo piano (ma per confondere le idee, a volte è anche al contrario). Non c’è via sopra la quale non incomba una rete metallica a maglia fitta, per scongiurare ogni lancio di oggetti. E le poche eccezioni dove la copertura è assente si possono visibilmente toccare con mano.

Una di queste me l’ha mostrata Yussef, che gestisce, proprio a ridosso del muro, uno storico hammam ottomano, sulla cui terrazza sono allineati diversi panelli solari, alcuni dei quali rotti. Li aveva cambiati (di nuovo) appena due mesi fa. Magari fossero infrangibili. Come il vetro antiproiettile nella tomba di Abramo, piccola stanza circolare sulla quale si affacciano due finestre: da una, pregano gli ebrei nella Sinagoga dei Patriarchi e dall’altra, i mussulmani nella Moschea di Ibrahim. Un unico immenso edificio diviso in due. Il vetro è per evitare che le divergenze di opinioni si risolvano a suon di spari. In quanto straniera, mi è stato concesso di attraversare il checkpoint dalla parte israeliana a quella palestinese, ma non senza subire lunghi e scoraggianti interrogatori, inclusa, al ritorno, la richiesta di mostrare tutte le foto scattate. Richiesta che ho gentilmente declinato.

Nablus

Chiamatela Sichem, la biblica Sichem. Il suo centro storico tradizionale, tutto vicoli, pietre lucide, lanterne e porte arabescate, ricorda le magiche atmosfere dove si muovono i personaggi nei racconti de “Le Mille e Una Notte”. Aspira a diventare Patrimonio dell’Umanità Unesco, ma è costantemente bersagliata da raid israeliani che, con il pretesto di stanare terroristi, seminano il delirio. Non è un caso, infatti, che la città sia diventata, col tempo, un “cimitero di immagini”, una carrellata senza fine dei volti di coloro che, proprio a causa di queste incursioni, non ci sono più.

Eppure, questa città non ha mai perso il suo sorriso: tutti lavorano a spron battuto. C’è chi produce sapone da due secoli e chi tosta il miglior caffè della Palestina; chi miscela sapientemente erbe in grado di curare qualsiasi male e chi frigge falafel come in una catena di montaggio; chi costruisce mobili indistruttibili a prova di retate e chi sforna dolci 24 ore su 24, sette giorni su sette, venerdì incluso.

Jenin

Pochi si spingono fin qui al nord. Peccato. Si perdono una delle città più sorridenti e tenaci di tutta la Cisgiordania, sebbene anche la più falciata dagli attacchi israeliani. Colorata e chiassosa, eppure costantemente all’erta, radicata e mai sconfitta, si rialza sempre, non si abbandona mai. La città è un immenso mercato a cielo aperto, dove ogni venditore urla nel suo megafono le straordinarie qualità della propria merce. A camminare per le vie, c’è da diventare sordi. E per contrattare, bisogna gridare a squarciagola, con il risultato che non sempre la merce ricevuta è esattamente quella che si voleva; e il prezzo pattuito, di gran lunga diverso da quello che si è effettivamente pagato.

Di Jenin, mi hanno emozionato le donne. Fiere e decise, non si arrendono mai, raccolgono i cocci e si rialzano sempre. Come Halima, il cui nome significa “paziente” – e a ragione. Possiede un piccolo emporio dall’epoca della seconda intifada. Più che un negozio, in realtà, è una sorta di ritrovo per signore. Qui, ogni giorno, si riuniscono le donne del quartiere: per parlare, confidarsi, ridere di qualcuno, allentarsi il velo e finalmente accendersi in santa pace una meritata sigaretta.

Gerico

Si dice sia la città più antica del mondo. La città “dalle fragili mura”. Vista da lontano, ammucchiata nel fondo di un’ampia valle tra le montagne polverose della Giudea, pare un miraggio, sommersa dal sole, sotto il caldo che non perdona. È custode di siti dalla storia millenaria, di monasteri irraggiungibili, monti sacri, sorgenti eterne e del sontuoso Palazzo di Hishām, gioiello realizzato dai califfi omayyadi nel 700 d.C., giunto fino a noi con tutti i suoi mosaici perfettamente intatti.

Ma Gerico è anche e soprattutto un immenso cuore aperto che batte a dismisura, forte di una popolazione fiera, ospitale, aperta e gioiosa, nonostante tutto quello che è costretta, suo malgrado, a sopportare. Come ciò che è accaduto – e che purtroppo molto spesso succede – la notte del 25 maggio 2023, quando un’incursione israeliana ha fatto breccia nel quartiere di Aqbat, dove alloggiavo.

Ero lì, alle 22.30, quando i droni hanno incominciato a volare sopra le nostre teste, preannunciando l’arrivo di 57 blindati dell’esercito (li ho contati, dal tetto della casa). E mentre i bulldozer israeliani sbarravano la strada con mucchi di terra per impedire la fuga agli abitanti, i giovani palestinesi bloccavano loro l’avanzata dando fuoco ai bidoni in mezzo alla vie. Nel pomeriggio, durante una passeggiata, avevo notato che quasi tutte le porte delle case erano ammaccate e storte, talune addirittura divelte. Ne ho compreso il motivo quella stessa sera: sfondate a calci dai militari. Sono entrata in una di queste abitazioni dopo l’irruzione: rovesciate da cima a fondo, tra pianti di bambini e disperazioni di donne. Hanno portato via 14 ragazzi. E feriti 13. “Uno solo” ucciso, un bambino di appena 9 anni, freddato a 200 metri da me. Nota a margine: l’ambulanza può intervenire solo a operazione conclusa: giusto il tempo di morire.

Sono scesa in strada, tra la gente che urlava e tirava sassi, e mi sono recata da una famiglia anch’essa ospite per sincerarmi che stesse bene. Dopodiché ho fatto ritorno al mio alloggio, ma non senza prima controllare dalla finestra a che punto fosse la situazione giù in strada. Ho quindi scostato lievemente le tendine. Ed è stato in quel preciso momento, che ho vista latitare sul mio petto un piccolo puntino rosso: ero sotto tiro. Mi sono subito gettata a terra e, dopo alcuni minuti spesi a ritrovare il fiato perduto, ho provato ad aprire la porta che dava sul giardino, tentativo immediatamente vanificato da un’esplosione a un passo da me che mi ha tolto, in un sol colpo e per diversi minuti, vista, udito – e battiti cardiaci. Un militare aveva appena gettato un ordigno proprio in quel giardino che avrei dovuto attraversare. Gli spari, equamente distribuiti in tutto il quartiere, sono andati avanti fino alle 5.30 del mattino.

Nostalgie di Gerusalemme…

Inutile dire che quella notte di fuoco a Gerico non ho chiuso occhio un istante. Quanto avrei invece voluto essere seduta al mio solito tavolino scalcinato del Jaber Coffee Shop, a Gerusalemme, poco distante dalla Porta di Erode, in compagnia del mio buon amico Abdul, che tutte le sere mi preparava amorevolmente il caffè. Un artista. Macina i chicchi con un pizzico di cardamomo, una punta di cannella e tanta tanta pazienza: un meticoloso equilibrio non sempre facile da realizzare. Tutto il resto, nel suo locale, è invece quotidianità allo stato brado, tra clienti impegnati in perpetue partite a carte o interminabili narghilè, discutendo dei giorni che passano, delle tasse che ritornano e delle mille storie oltre confine di cui non si sa mai abbastanza.

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