Vademecum del viaggiatore solitario

Il viaggiatore solitario organizza poco e vive molto, intuisce, non ha aspettative e si pone molte domande: le risposte, prima o poi, arrivano

Ho sempre avuto un rapporto piuttosto conflittuale con l’organizzazione del viaggio in solitaria. Organizzare significa spesso costringerci in un percorso obbligato, in una rete che rischia di comprimere la libertà dei sensi e soffocare la fantasia. Preferisco lasciare che il mondo mi stupisca. Ancora. Ho perciò iniziato a viaggiare col cuore, a dare più spazio all’inatteso. Parto leggera: di bagaglio e di spirito. Meglio abbandonare a casa aspettative e pregiudizi, seguire l’istinto che non tradisce e scegliere la traccia più lieve, quella che conduce a nuove prospettive e a dettagli su quali – perché no? – interrogarsi, indipendentemente dalla risposta.

I miei piani di viaggio, perciò, raschiano il fondo della barile, riducendosi a ben pochi ed essenziali dettagli.

Il volo

Acquisto il biglietto aereo direttamente sul sito della compagnia, per evitare inutili costi aggiuntivi. Da qui, alcuni – ahimè – imprescindibili controlli e procedure di rito relativi al Paese da visitare, tutte informazioni facilmente verificabili sul sito della Farnesina.

L’albergo

Prenoto solo la prima notte. Il mio viaggio si costruisce strada facendo. Inutile prefissarmi un itinerario da seguire: dopo due giorni, i piani sono già sovvertiti. Basta indugiare oltre il dovuto in un luogo che ispira, deviare una volta di più nel fuori rotta, curiosare negli angoli più inaccessibili. O incontrare persone dotate di un particolare senso di gentilezza e ospitalità, circostanza tutt’altro che rara, se ci si accosta alla gente con spontaneità, l’animo aperto e un sorriso che null’altro chiede in cambio.

L’auto

Evito i noleggi da compagnie internazionali, affidandomi invece a quelle locali, decisamente più economiche e quasi tutte rintracciabili su Google Maps digitando la parola magica “rental car”. Dell’auto, non riuscirei più farne a meno. Altrimenti come avrei potuto scovare, tra le montagne dell’Iran, i nomadi baktiari dai volti tatuati e le vesti dipinte, e sorseggiare il tè insieme a loro, in quelle grandi tende, seduta come un pascià su morbidi tappeti persiani e cascanti drappi della migliore stoffa di Damasco…

O attraversare il Quebec lungo la seconda strada solitaria più lunga al mondo, quella dritta e inesorabile striscia d’asfalto rattoppato che collega Matagami a Chisasibi, sulla Baia di Hadson, villaggio di indiani cree che odiano gli inglesi e girano con i revolver. È la Route de la Baie James: 620 chilometri senza una casa, solo la nuda taiga, foreste incontenibili e acquitrini insidiosi, con un’unica oasi di sopravvivenza che è il cosiddetto “Km 381”, nucleo pseudo-urbano dotato di albergo (un container, in realtà), ristorante, distributore di benzina, gommista, meccanico e dottore. Quella notte, l’ho trascorsa alla finestra, ipnotizzata da un’oscurità pesante come piombo, con la sua aria immota e i camion addormentati sotto la luce intermittente dei lampioni, ai margini della vita. Mi sembrava di galleggiare nel vuoto, di navigare nell’anti-tempo, controcorrente e senza meta.

Viaggiate su strade secondarie!

Le strade cosiddette “blu” hanno il miracoloso potere di sorprendere. Come nella profonda Grecia settentrionale, al confine con la Repubblica della Macedonia del Nord, dove ancora resistono i vecchi cartelli stradali che indicano la direzione per la Yuguslavia – scritta con la Y – in barba alla sua dissoluzione del 1991.

E soprattutto…viaggiate senza la vostra musica!

Le radio locali sono le chiavi inattese che aprono porte su mondi di cui fino a quel momento si ignorava l’esistenza. È in questo modo che ho scoperto che, nelle lontane steppe magiare dell’Ungheria, si ascoltano ancora i canti popolari tzigani; o che il Corano recitato nei paesi arabi – in nove emittenti su dieci – se la voce è dotata, può anche rivelarsi una conciliante melodia; o che nell’isola caraibica di Guadalupe, ci sono intere frequenze che passano solo ed esclusivamente brani di calypso, genere nato nelle piantagioni come metodo di comunicazione tra gli schiavi e ora ballato dai giovani sulle spiagge fino a mattina.

Keep calm and trust!

Se si viaggia da soli, bisogna avere fiducia ed essere pazienti. In caso contrario, l’attesa alla frontiera polacco-russa, ad esempio, potrebbe trasformarsi in un lento e crudele supplizio. Il confine è quello che divide la Polonia dall’enclave sovietica di Kaliningrad, un ingombro geografico delimitato, a nord, dalla Lituania. Vi sono giunta con la mia auto, partendo una mattina dal piccolo paese in cui vivo, Corsione.

Sette le barriere da superare, in questo sorta di limbo burocratico dove un terzo degli agenti frontalieri si limita semplicemente a osservare i passeggeri; un altro terzo controlla, pagina per pagina, il loro passaporto; e l’ultimo è chino a compilare chilometri di moduli e a scrivere papiri di parole, processo che termina con la sacra consegna di indecifrabili documenti la cui perdita accidentale potrebbe costare al viaggiatore la sua stessa libertà. O forse anche peggio.

Le lingue straniere, dettagli

Non è fondamentale conoscere le lingue straniere. Ci sono molti altri modi con cui comunicare. E di comprendersi. In Georgia, nel Caucaso, mi sono intrattenuta – con successo – in lunghe conversazioni a gesti, in particolar modo con alcuni allegri anziani che, nella loro locanda in mezzo ai boschi, al limitare con la Cecenia, mi hanno offerto da bere tutte le specialità (liquorose) del luogo, fino all’ultima goccia, posto letto (inevitabilmente) incluso. E che dire di quel ristorante sperduto nelle campagne della Serbia? Ancora adesso, non so cosa ho mangiato. Il menù era solo in cirillico. Ho indicato a caso col dito. Era buono.

“Lascia che sia”, scriveva (a ragione) Paul Bowles

Bisogna essere un po’ fatalisti, a viaggiare da soli. Diversamente sarei ancora nel Montana, Stati Uniti, a piangere sulla mia auto, distrutta in fondo a una scarpata (mea culpa, avevo dimenticato il freno a mano). E credo sia altresì necessario accettare il mistero. Le irriverenti domande dei militari israeliani ai vari checkpoint con la Palestina restano a tutt’oggi un irrisolvibile rompicapo senza soluzione.

No fake infos, thanks!

Infine, diffidate dalle informazioni generosamente elargite su web. Avevo letto che la porzione di territorio saudita vicino allo Yemen era da evitare, in quanto molto pericolosa. Tutto il contrario. Non sparano ormai da sei anni, mi rassicurano gli abitanti di Nashran.

Morale: le informazioni vanno raccolte sul posto. Libano a parte. Qui nessuna regola vale. È il caos, imprevedibile fino al midollo. Non è di certo stato piacevole scoprire che i bancomat non erogano soldi agli stranieri e che quei pochi da cui è possibile prelevare dollari si trovano solo a Beirut; che il denaro cambiato molto spesso è falso, come falsa può essere la benzina e persino le multe; che per gli hezbollah, tutti i viaggiatori sono spie israeliane, per cui vanno seguiti, a staffetta; e che esistono zone accessibili solo dietro permesso, ma senza una visibile barriera d’accesso. Come quella a sud del Paese, controllata dalle forze dell’Unifil. Mi ci sono trovata per sbaglio. Me la sono cavata con un arresto di 5 ore, confinata dentro una squallida stanza di servizio, in uno squallido edificio governativo, senza passaporto, né macchina fotografica e chiavi dell’auto – tutti sequestrati. Scortata anche per andare in bagno, squallido pure quello. Anche loro convinti che io fossi una spia al soldo di Israele. Si sono accertati del contrario dopo aver fatto passare tutte le 1300 foto scattate durante il viaggio. Finalmente tranquillizzati, mi hanno offerto tè, caffè e baklava, e poi “accompagnato” con due blindati fino a Tiro.

Eppure in Libano ci tornerei domani. Non ho mai desiderato il bello, né evitato il brutto. Ciò che cerco è il vero. Aveva forse ragione l’esploratrice Freya Stark quando scriveva che “l’importante è conoscere. Ma per conoscere, bisogna andare nei luoghi, incontrare la gente, parlare con loro. Solo allora, tutto il mondo ti viene incontro come un’onda”.

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